domenica 25 maggio 2014

Prostituzione.. quale sistema?


Vedo che si continua a fare confusione tra sistema abolizionista e proibizionista, forse in malafede si attribuisce all’abolizionismo la criminalizzazione tipica del proibizionismo. Cercherò di fare un po’ di chiarezza.
Sistema proibizionista: Consiste nel vietare la prostituzione e nell'applicare  pene pecuniarie o detentive, alle prostitute in genere, in alcuni casi anche al cliente. Sostenendo la necessità di tale norma, per  tutelare in tal modo la morale pubblica. o la dignità della donna.
Sistema abolizionista: Il sistema chiama lo Stato fuori dalla disputa, senza proibire o regolamentare l'esercizio della prostituzione. Viene perseguito solo lo sfruttamento il reclutamento e il favoreggiamento e attività affini.
Quindi nel sistema abolizionista, contrariamene a quello proibizionista prostituirsi non è un reato, anche se considerata attività non lecita.
Sistema regolamentaristico: La prostituzione non è libera, ne proibita ma regolamentata.
Questo è un sistema teso a regolamentare la prostituzione, con modalità differenti, tipo quartieri , bordelli, o altre forme che il mercato crea ed offre. In questo caso lo stato considera la prostituzione un’attività lecita, e “liberamente esercitata”, un lavoro su cui si paga regolarmente le tasse. Rimane perseguita la prostituzione minorile, e in teoria rimane vietata qualsiasi forma di costrizione o coartazione. In questo sistema, lo Stato stabilisce il come, dove e quando è consentito o no, la prostituzione.  In più, lo sfruttatore, sarà un’onesto imprenditore, che potrà avere accesso a mutui e finanziamenti vari, per poter reperire nuovi “prodotti” da inserire sul mercato. È un sistema patriarcale, perché vede la donna come unica responsabile della prostituzione. Capitalista, perché tende a creare sempre nuove forme di sfruttamento e profitto sulle persone. Non abbatte lo stigma della prostituta ma come detto precedentemente lo toglie solo al “pappone”.
 Il sistema regolamentaristico  è stato in vigore in tutta Europa occidentale per più di un secolo, oggi conosciamo i livelli di ipocrisia e sfruttamento che hanno rappresentato i “bordelli”.  Negli ultimi anni, si è fatta strada una certa letteratura, che ci parla con nostalgia dei “bordelli”,  leggende, che narrano di una maggiore sicurezza delle donne, sia sanitaria che personale. Ma sono gli uomini che ci raccontano tutto questo, sono gli uomini che hanno nostalgia. La storia ci narra di donne; umiliate, sfruttate, spremute e oppresse. Anche l’arte e la letteratura, quella vera, ci parla di altro:
Guy de Maupassant le rende eroine, (Boule de suif) e schiave. (La casa Tellier ) Henri de Toulouse-Lautrec, descrive un’umanità dolente, sofferente e triste. Georges Simenon (la neve era sporca) ci parla del cinismo di un protettore, che seduce le ragazze allo scopo di mandarle a lavorare dalla madre che è tenutaria di un “bordello”. Ma nessuno di loro, ci parla di donne libere,  realizzate e sodisfatte nel loro lavoro.
Il sistema regolamentaristico, è un sistema totalitario, che trasforma le donne, in prede e non lascia scampo, non da la possibilità ne di ribellarsi ne di uscire da quella condizione, lo sfruttamento viene legalizzato, sostenuto e promosso.
Ma la retorica borghese e liberale, la considera come forma di “libertà”. La libertà di essere solo schiavi.



Pubblico qui un estratto di Irène Pereira sul “Lavoro e tempo libero” che potete trovare per intero qui: http://femminileplurale.wordpress.com/2013/03/15/la-biblioteca-di-fp-capitolo-3/


[…] Una delle poste in gioco delle lotte femministe è stata ed è ancora quella di battersi perché la sessualità possa essere, per le donne, parte della sfera del piacere e non di quella della costrizione; di fare in modo che la sessualità delle donne non abbia come unico scopo il piacere degli uomini o la riproduzione della specie, ma sia finalizzata al proprio piacere.
Ora: che cos’è la prostituzione? Un’attività attraverso la quale una persona vende una prestazione sessuale per garantire la propria sussistenza.
Lottare per far riconoscere la prostituzione come lavoro, sarebbe allora:
1) Lottare per fare della sessualità non più un’attività orientata al piacere, ma un’attività di sussistenza, vale a dire appartenente alla sfera delle costrizioni.
2) Rafforzare questo movimento generale di trasformazione delle attività di lavoro in tempo libero e delle attività del tempo libero in lavoro a beneficio degli interessi di certe classi di individui contro altre.
Così, certe persone, avvalendosi di argomenti apparentemente umanitari, reclamano la fornitura di un servizio pubblico sessuale per le persone diversamente abili. La loro argomentazione consiste nell’affermare che la sessualità sia un bisogno vitale e che esisterebbe dunque un diritto alla sessualità.
Nello stesso tempo, queste persone affermano che le prostitute o le persone che dovrebbero assicurare questo servizio, lo farebbero per scelta. Ma quando gli si chiede perché non dovrebbero farlo gratuitamente, esse rispondono che in tal caso queste persone non garantirebbero questo servizio. Di fatto, esse riconoscono che le persone che assicurano un servizio sessuale pagato non lo fanno liberamente, ma per necessità.
Ora: perché il cosiddetto “diritto alla sessualità delle persone diversamente abili” sarebbe superiore al diritto ad una sessualità che sia un piacere per le persone che effettuano prestazioni sessuali?

In linea generale, mi sembra che le persone che cercano di fare della prostituzione un lavoro giuridicamente riconosciuto conducano una battaglia doppiamente sbagliata. Da una parte fanno, senza accorgersene, il gioco del capitalismo, permettendo a questo sistema economico di occupare ancora di più questo mercato ( sviluppo degli Eros Center). Dall’altra parte, esse lottano per la colonizzazione, da parte del lavoro, di ambiti dell’attività umana che non rientrano nel campo del lavoro. […]”

mercoledì 14 maggio 2014

Tentativo di una lettura storica.



La Primavera di Sandro Botticelli;  nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente mitologico; uno filosofico, legato alla filosofia dell’accademia neoplatonica; uno storico, legato alle vicende e personaggi contemporanei, del committente e della sua famiglia.
Mi occuperò di una lettura storica, quella che vede come committente  Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici (1463-1503), detto Lorenzo il Popolano, per celebrare le sue nozze con Semiramide Appiani.
In base ad altri ritratti dipinti da Botticelli, nei vari protagonisti della rappresentazione sono stai individuati vari personaggi: in particolare nelle tre Grazie sono state riconosciute Caterina Sforza (a destra), e Simonetta Vespucci (a sinistra), e la sposa Semiramide Appiani al centro, colpita dalla freccia di Cupido, e guarda sognante verso lo sposo, Mercurio-Lorenzo di Pierfrancesco de’ Medici.

Storia del dipinto:
Alla morte di Lorenzo di Pierfrancesco, detto il Popolano, avvenuta nel 1503, il dipinto è citato nell’inventario della “casa vecchia”, con la denominazione “il Giardino d’Atlante”; e passa in eredità al nipote, Ludovico detto Giovanni, (poi noto come Giovanni delle Bande Nere). Figlio di Giovanni il Popolano e Caterina Sforza, (una delle tre Grazie- quella a destra.)  Il successivo inventariato con la denominazione “Il Giardino delle Esperidi”.  Che passò in eredità  nel 1526, al figlio Cosimo, che una volta divenuto duca di Firenze (1537) lo trasferì nella villa di Castello. Qui lo vide Giorgio Vasari (1550 e 1568) e lo chiamò “Allegoria della Primavera”.
Dati Tecnici: Tempera su tavola, (pioppo); 203x314 cm.
Attuale Ubicazione: Firenze, Galleria degli Uffizi.
Breve descrizione del soggetto:
Il dipinto presenta nove personaggi allineati in primo piano: due figure maschili ai lati, sei femminili, e un putto alato. Le figure sono sospese sopra il manto erboso, e delimitate da un boschetto di agrumi, (le arance sono il simbolo dei Medici, )
Il fitto manto erboso è composto da 190 piante, delle quali ne sono state identificate 138.  La luce è astratta, senza una fonte precisa, i piedi dei personaggi, che pure camminano e danzano, non calpestano nessuna pianta.  L’opera è piena di riferimenti letterari, filosofici, alchemici e iconografici; le Stanze e il Rusticus di Agnolo Poliziano; Metamorfosi e i Fasti di Ovidio; l’Asino d’oro di Apuleio e  il De Rerum Natura di Lucrezio.

Le figure, partendo da destra a sinistra: Zefiro vento di primavera rapisce la ninfa Clori.  Che ritorna, in un secondo momento,  trasformata in Flora, che rappresenta la fertilità femminile.  Al centro si trova Venere, dea dell’amore, simbolo neoplatonico dell’amore più elevato, che osserva tutta la scena posta contro un cespuglio di mirto, pianta a lei sacra; sopra la dea, vola Cupido, bendato che sta per scoccare una freccia verso le tre Grazie,  sulla sinistra Mercurio, con i calzari alati e il caduceo, tiene lontane le nubi. Secondo l’interpretazione mitologica i personaggi si trovano nel famoso giardino delle Esperidi.
La data del dipinto varia tra il 1477/1478 e 1482/1485, tutto dipende da chi era realmente il committente, se il committente, era Giuliano de Medici, la data è precedente al 1478. Se il committente è Lorenzo il Popolano; la data è successiva al 1482, anno delle nozze di Lorenzo il Popolano e Semiramide Appiani.
Molto verosimilmente,  l’opera sia stata inizialmente commissionata a Botticelli da Giuliano de’ Medici in occasione della nascita del figlio Giulio (futuro papa Clemente VII), avuto con Fioretta Gorini,  che egli avrebbe sposato in gran segreto nel 1478. Ma Giuliano morì nella congiura dei Pazzi ordita contro il fratello in quello stesso anno, un mese prima della nascita del figlio, per cui il quadro incompiuto e abbandonato, venne riutilizzato dal Botticelli per le nozze di Lorenzo il Popolano.  La parte destra del dipinto, con i personaggi Clori, Flora e Venere, e in questo caso hanno le sembianze di: Fioretta Gorini (Clori e Flora) ed Oretta de Pazzi. (Venere, che è incinta ) Sono stati eseguiti prima del 1478, anno della congiura de Pazzi.
Al ritorno del Botticelli da Roma, per i lavori nella Cappella Sistina; (1480/1482) riutilizza questo quadro per le nozze di Lorenzo il Popolano, inserendovi il suo ritratto e quello della moglie Semiramide Appiani.
Per una Lettura storica, si potrebbe considerare; Flora, che rappresenta Firenze, le tre Grazie, sono le tre famiglie, (Appiani, Vespucci, Sforza) o meglio le tre Banche, sorvegliati da  Venere, simbolo della filosofia neoplatonica sotto il cappello protettivo dei  Medici. (aranci)

Bibliografia:
C. Bo, G. Mandel L'opera completa del Botticelli. Classici Rizzoli, Milano 1966
G. Cornini. Botticelli. Dossier Art n. 49, Giunti editore, Firenze 1990

E. Bernini, R. Rota Eikon guida alla storia dell'arte. Vol. 2 Dal Quattrocento al Seicento. Editori Laterza, Bari 2006

RIFLESSIONI SULLA PENA DI MORTE- Albert Camus



Poco prima della guerra del 1914, un assassino che aveva commesso un crimine particolarmente rivoltante (aveva massacrato una famiglia di coloni, compresi i figli) venne condannato a morte ad Algeri. Si trattava di un bracciante che aveva ucciso  in una sorta di delirio omicida, ma con l'aggravante di aver derubato le proprie vittime. Il processo suscitò grande scalpore. Generalmente si ritenne che la decapitazione fosse una pena troppo mite per un simile mostro. Questa fu, così mi si disse, anche l'opinione di mio padre, sdegnato soprattutto dall'eccidio dei bambini. Una delle poche cose che so di lui, in ogni caso, è che volle assistere all'esecuzione, per la prima volta in vita sua. Si alzò nel cuore della notte per recarsi sul luogo del supplizio, all'altro capo della città, fra un gran concorso di folla. Di quanto vide, quel mattino, non disse nulla a nessuno.

Mia madre racconta soltanto che rientrò di furia, stravolto, si rifiutò di parlare, si stese un istante sul letto e d'improvviso incominciò a vomitare. Aveva visto in faccia la realtà che si celava sotto le formule solenni tese a mascherarla. Non pensava più ai bambini massacrati, non poteva più pensare che a quel corpo palpitante sull'asse dove l'avevano gettato per tagliargli il collo. Bisogna dunque ritenere che quest'atto rituale è ben spaventoso, se poté vincere l'indignazione dl un uomo semplice e probo, e se un castigo, da lui considerato fino ad allora cento volte meritato, non ebbe in definitiva altro effetto che provocargli la nausea fisica. Quando la giustizia suprema non offre che occasioni di vomito all'uomo onesto posto sotto la sua protezione, appare difficile sostenere che essa sia destinata, come dovrebbe essere suo compito, ad accrescere la pace e l'ordine in seno allo Stato.

E' invece evidente che essa non è meno ripugnante del delitto, e che questo nuovo assassinio, lungi dal riparare l'offesa inferta al corpo sociale, non può aggiungervi che fango. Lo dimostra il fatto che nessuno osa parlare apertamente di una tale cerimonia. I funzionari e i giornalisti che dovrebbero farlo, quasi fossero coscienti di quanto essa manifesta di provocatorio e di vergognoso, hanno elaborato al riguardo una sorta di linguaggio rituale, ridotto a formule stereotipate.

Così, durante la prima colazione, possiamo leggere in un angolo del giornale che il condannato ha «pagato il suo debito alla società», oppure che ha «espiato», o che «alle cinque giustizia era fatta». I funzionari parlano del condannato come dell'«interessato», del «paziente», oppure lo designano con una sigla: il C.A.M. ["Condanné à mort". N.d.T.]. Della pena capitale si scrive, oserei dire, a voce bassa. Nella nostra civilissima società la gravità di un male è rivelata dalla reticenza con cui se ne parla.
A lungo, nelle famiglie borghesi, ci si è limitati a dire che la figlia maggiore era delicata di petto o che il padre soffriva di un «gonfiore», perché la tubercolosi e il cancro venivano considerate malattie pressoché vergognose. Questo è ancor più vero, non v'è dubbio, riguardo alla pena di morte, visto che tutti s'ingegnano a parlarne per eufemismi. Essa sta al corpo politico come il cancro al corpo dell'individuo, con la differenza che nessuno ha mai parlato della necessità del cancro. Non si esita invece a presentare la pena

di morte come una dolorosa necessità, che legittima dunque a uccidere, poiché è necessario, e a non parlarne, poiché il farlo è sconveniente. E' invece mia intenzione parlarne crudamente……….....